M come MESSA A FUOCO
Attorno al 1865 Julia Margaret Cameron, appassionata fotografa della Londra vittoriana, replicava agli accademici londinesi che stigmatizzavano la sua "libertà" nella messa a fuoco, scrivendo all'amico Herschel queste parole:
"…al di sopra della Fotografia topografica puramente convenzionale consistente nel fare una mappa, nel dare a uno scheletro fattezze e forme senza quella rotondità e pienezza di forza, quel modellare di carni e di membra che soltanto la mia particolare messa a fuoco può dare, per quanto sia chiamata “fuori fuoco” e come tale condannata. Che cos’è il fuoco? E chi ha il diritto di dire qual è il fuoco giusto? La mia aspirazione è di nobilitare la Fotografia e di assicurarle il carattere e le qualità di una grande arte combinando insieme il reale e l’ideale e nulla sacrificando della Verità pur con tutta la possibile devozione alla Poesia e alla Bellezza…"
La MESSA A FUOCO, argomento all'apparenza tecnico ma denso di pregnanza espressiva, occupava fin dai primordi un posto di primo piano nel dibattito acceso con l'invenzione della fotografia. Se la Cameron proclamava la legittimità dei suoi "sfocati", nel 1932 Ansel Adams, Edward Weston e altri sei fotografi americani dichiaravano guerra alla sfocatura e al pittorialismo in fotografia, fondando il gruppo F 64, nome riferito al valore di diaframma molto chiuso che avevano scelto quasi a bandiera del loro modo di concepire la fotografia: nitidezza a tutto campo, dal primo piano all'infinito.
Cosa se ne potrebbe concludere? Forse Cameron contro Adams uno a zero? O viceversa?
È mia profonda convinzione che la questione sia molto semplice: la messa a fuoco corretta è quella che più corrisponde agli intenti comunicativi del fotografo. Da questa apparente ovvietà deriva invece un'assunzione di responsabilità che ogni fotografo avveduto deve far propria ed è quella di decidere, per ogni foto che scatta, quale sia il piano di messa a fuoco più corretto e la profondità di campo più funzionale alla fotografia che sta per scattare. Potremmo semplicemente chiamarla consapevolezza quella condizione in cui il fotografo si chiede cosa sta facendo, cosa vuol comunicare attraverso la fotografia che sta per fare e sceglie le opzioni tecniche più adatte a raggiungere i propri scopi espressivi.
Dal punto di vista ottico-meccanico la messa a fuoco consiste nel regolare la distanza fra l'obiettivo e il supporto fotosensibile (pellicola o sensore) in modo tale da rendere nitido il soggetto posto ad una determinata distanza.
Soggetti posti a distanza diversa dall’obiettivo, vengono messi a fuoco su piani diversi (vedi figura)
La figura mostra come lo stesso soggetto, se posto a grande distanza dall’obiettivo (esempio 1), verrà riprodotto molto piccolo e messo a fuoco su un piano vicino alla lente posteriore dell’obiettivo. Nell’esempio 2 si vede come lo stesso soggetto, ripreso da una distanza minore, produrrà un’immagine più grande messa però a fuoco su un piano più distante. E così succederà nell’esempio 3.
Se la distanza lente/piano focale non è quella giusta, ogni singolo punto della scena reale verrà riprodotto come un piccolo cerchio chiamato “cerchio di confusione” e l’immagine del soggetto risulterà poco nitida, sfocata, appunto, derivando dal sovrapporsi di tutti i suddetti cerchi, tanto più sfocata quanto più la regolazione dell’obiettivo si discosta da quella corretta (vedi figura)
Nel corso dei decenni la tecnologia ha sviluppato soluzioni sempre più sofisticate permettendo il raggiungimento di un controllo estremamente preciso della messa a fuoco. Risale al 1977 l'introduzione dell'autofocus in una fotocamera prodotta in serie e, da quel momento, inizia una progressione che porterà, oltre agli indiscutibili vantaggi, ad una progressiva "perdita di coscienza" da parte dei fotografi.
Mi spiego meglio. Fino a qualche decennio fa, un fotografo che portava all'occhio una fotocamera cercava immediatamente con una mano la ghiera di messa a fuoco, essendo cosa scontata che la prima cosa da fare era di rendere nitido il soggetto inquadrato. L’arrivo della messa a fuoco automatica (“autofocus”) se, da un lato, ha reso più veloce e più precisa l’operazione, dall’altro ha fatto progressivamente dimenticare la sua stessa esistenza, spodestando di fatto il fotografo e togliendogli l’onere ma anche l’onore di decidere cosa, all’interno di una fotografia, deva risultare nitido e cosa possa o deva esserlo meno. Infatti è proprio attraverso un sapiente uso della messa a fuoco e della profondità di campo (derivante dal valore di apertura del diaframma e da altri parametri) che l’autore della fotografia può rafforzarne il senso creando, se necessario, una “gerarchia” fra i vari piani più o meno nitidi, fornendo in tal modo all’osservatore dell’immagine la chiave per interpretarla correttamente.
La prossima voce sarà “PROFONDITÀ DI CAMPO”