Scritto da Adriano Frisanco il . Pubblicato in Glossario.
Quando osserviamo le cose con i nostri occhi le vediamo sempre nitide, che siano lontane o vicine (difetti di vista a parte, s’intende). Se stiamo leggendo un libro, tenendolo a una trentina di centimetri da noi, riusciamo a distinguere perfettamente i caratteri stampati. Se spostiamo lo sguardo verso la persona che, a qualche passo da noi, ci ha rivolto la parola, la vediamo perfettamente nitida e se quella persona ci indica il profilo delle montagne sullo sfondo, lontane qualche chilometro, a noi appariranno ugualmente nitide.
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La MESSA A FUOCO è, senza ombra di dubbio, una delle operazioni più importanti e determinanti nella pratica fotografica ed è argomento tecnico ma anche denso di pregnanza espressiva. Dal punto di vista ottico-meccanico consiste nel regolare la distanza fra l'obiettivo e il supporto fotosensibile (pellicola o sensore) in modo tale da rendere nitido il soggetto della ripresa. Nel corso dei decenni la tecnologia ha sviluppato soluzioni sempre più sofisticate permettendo il raggiungimento di un controllo estremamente preciso della stessa. Risale al 1977 l'introduzione dell'autofocus in una fotocamera prodotta in serie e, da quel momento inizia una progressione che porterà, oltre agli indiscutibili vantaggi, ad una progressiva "perdita di coscienza" da parte dei fotografi, soprattutto quelli “della domenica”.
Mi spiego meglio: fino a qualche decennio fa un fotografo che portava all'occhio una fotocamera cercava immediatamente la ghiera di messa a fuoco, essendo cosa scontata che la prima cosa da fare era di rendere nitido il soggetto. L’introduzione della messa a fuoco automatica (“autofocus”) se, da un lato, ha reso più veloce e più precisa l’operazione, dall’altro ha fatto progressivamente dimenticare la sua stessa esistenza, spodestando di fatto il fotografo, togliendogli l’onere ma anche l’onore di decidere cosa, all’interno di una fotografia, deva risultare nitido e cosa possa o deva esserlo meno. Infatti, è proprio attraverso un sapiente uso della messa a fuoco e della profondità di campo (derivante dal valore di apertura del diaframma) che l’autore della fotografia può rafforzarne il senso creando una “gerarchia” fra i vari piani più o meno nitidi, fornendo in tal modo all’osservatore dell’immagine la chiave per interpretarla correttamente.
Molto interessante si rivela ripercorrere le opinioni che si sono avvicendate sull’argomento nel corso del tempo e qui sotto ne citiamo due fra le più note e, per giunta, antitetiche.
Attorno al 1865 Julia Margaret Cameron, appassionata fotografa della Londra vittoriana, replicava agli accademici londinesi che stigmatizzavano la sua "libertà" nella messa a fuoco, scrivendo all'amico Herschel queste parole:
"…al di sopra della Fotografia topografica puramente convenzionale consistente nel fare una mappa, nel dare a uno scheletro fattezze e forme senza quella rotondità e pienezza di forza, quel modellare di carni e di membra che soltanto la mia particolare messa a fuoco può dare, per quanto sia chiamata “fuori fuoco” e come tale condannata. Che cos’è il fuoco? E chi ha il diritto di dire qual è il fuoco giusto? La mia aspirazione è di nobilitare la Fotografia e di assicurarle il carattere e le qualità di una grande arte combinando insieme il reale e l’ideale e nulla sacrificando della Verità pur con tutta la possibile devozione alla Poesia e alla Bellezza…"
Se la Cameron proclamava la legittimità dei suoi "sfocati", nel 1932 Ansel Adams, Edward Weston e altri sei fotografi americani dichiaravano guerra alla sfocatura e al pittorialismo in fotografia, fondando il gruppo F 64, nome riferito al valore di diaframma molto chiuso che avevano scelto quasi a bandiera del loro modo di concepire la fotografia: nitidezza a tutto campo, dal primo piano all'infinito.
Cosa se ne potrebbe concludere? Forse Cameron contro Adams uno a zero? O viceversa?
È mia profonda convinzione che la questione sia molto semplice: la messa a fuoco corretta è quella che più corrisponde agli intenti comunicativi del fotografo. Da questa apparente ovvietà deriva invece un'assunzione di responsabilità che ogni fotografo avveduto deve far propria ed è quella di decidere, per ogni foto che scatta, quale sia il piano di messa a fuoco più corretto e la profondità di campo più funzionale alla fotografia che sta per scattare. Potremmo semplicemente chiamarla consapevolezza quella condizione in cui il fotografo si chiede cosa sta facendo, cosa vuol comunicare attraverso la fotografia che sta per fare e sceglie le opzioni tecniche più adatte a raggiungere i propri scopi espressivi.
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Attorno al 1865 Julia Margaret Cameron, appassionata fotografa della Londra vittoriana, replicava agli accademici londinesi che stigmatizzavano la sua "libertà" nella messa a fuoco, scrivendo all'amico Herschel queste parole: "…al di sopra della Fotografia topografica puramente convenzionale consistente nel fare una mappa, nel dare a uno scheletro fattezze e forme senza quella rotondità e pienezza di forza, quel modellare di carni e di membra che soltanto la mia particolare messa a fuoco può dare, per quanto sia chiamata “fuori fuoco” e come tale condannata. Che cos’è il fuoco? E chi ha il diritto di dire qual è il fuoco giusto? La mia aspirazione è di nobilitare la Fotografia e di assicurarle il carattere e le qualità di una grande arte combinando insieme il reale e l’ideale e nulla sacrificando della Verità pur con tutta la possibile devozione alla Poesia e alla Bellezza…"
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LA PROSPETTIVA, QUESTA ILLUSTRE SCONOSCIUTA
Uno degli effetti interessanti e più importanti, prodotto dai diversi obiettivi ma pressoché sconosciuto al fotografo principiante è la prospettiva.
COS’È LA PROSPETTIVA?
Cerchiamo di dare una definizione concreta e utile di questa parola: "La prospettiva è quel fenomeno percettivo grazie al quale le cose appaiono tanto più piccole quanto più sono lontane da noi" Esempi noti a tutti sono quelli forniti da un viale alberato che, osservato da una certa posizione, fa apparire gli alberi sempre più bassi, così come gli edifici che lo costeggiano sembrano rimpicciolire fino a scomparire in lontananza. Questo fenomeno, anche se ci fa credere una cosa non vera, ci è indispensabile per valutare la distanza che ci separa dalle cose ed è lo stesso per tutti gli esseri umani. Ma non succede così in fotografia! L’effetto prospettico con cui vengono rappresentate le scene dipende dall’angolo di ripresa dell’obiettivo, secondo la seguente modalità:
il grandangolo esagera la prospettiva e fa sembrare più profondo lo spazio davanti a noi
il normale riproduce la scena con lo stesso effetto prospettico della nostra vista (da qui il termine "normale")
il teleobiettivo riduce la prospettiva, comprime i vari piani facendo sembrare le cose più vicine fra loro.
Osservate le quattro immagini che seguono: mostrano Piazza Duomo di Trento ripresa dalla stessa posizione con quattro diverse regolazioni dello zoom: 17, 28, 50, 100 mm. A un primo sguardo risulta palese la progressiva riduzione della porzione di piazza inglobata nell’inquadratura e il conseguente ingrandimento degli elementi ripresi, effetto dell’angolo di ripresa sempre più stretto, ma, a uno sguardo più attento, si può anche notare la progressiva apparente “compressione” dello spazio, con una piazza che appare sempre meno profonda, mano a mano che l’angolo di campo si restringe.
Scritto da Adriano Frisanco il . Pubblicato in Glossario.
Zoom, grandangolo, zoomare, teleobiettivo, 100 mm, normale… sono termini che i fotografi usano spesso, esperti o principianti che siano, riferendosi a una importante caratteristica fisica degli obiettivi: la lunghezza focale.
COS’È LA LUNGHEZZA FOCALE?
In termini tecnici è semplicemente “la distanza fra il centro ottico dell’obiettivo e il piano su cui quel dato obiettivo mette a fuoco un soggetto posto all’infinito”, come mostra l’immagine qui sotto.Fig. 001 - la lunghezza focale
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Alla domanda che pongo agli allievi dei miei corsi per principianti su cosa significhi, in fotografia, la parola “zoom”, mi sento rispondere nelle maniere più varie e strampalate: “è l’ingrandimento del soggetto”, oppure “è l’avvicinamento o l’allontanamento degli oggetti”, o ancora “è quando non si vuole riprendere delle cose vicine al soggetto”. Raramente viene data la risposta corretta: LO ZOOM È SEMPLICEMENTE UN TIPO DI OBIETTIVO FOTOGRAFICO, CAPACE DI VARIARE IL PROPRIO ANGOLO DI RIPRESA. Prima di addentrarci nell’argomento è utile fare una breve premessa di carattere storico.
Scritto da Adriano Frisanco il . Pubblicato in Glossario.
Obiettivo normaleCome già affermato nella prima parte dell'articolo, considero indispensabile per il fotografo la piena consapevolezza che le diverse lunghezze focali, ovvero le diverse possibili regolazioni dello zoom, determinano un modo diverso di riprodurre la scena fotografata, di rendere lo spazio e la sua profondità.
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Sarà capitato a tutti di scattare fotografie in un interno e di ottenere immagini dai toni esageratamente caldi, con una evidente dominante giallo/rossastra. Quel difetto dipende da un’errata impostazione della funzione bilanciamento del bianco, indicata dalla sigla WB (White Balance), su tutte le fotocamere digitali. La luce che illumina il mondo non è sempre costante. La luce solare, ad esempio, sappiamo avere tonalità più calde (rossastre) all’alba e al tramonto e più fredde (blu) prima dell’alba o al crepuscolo. Anche nelle giornate con il cielo coperto si percepisce una certa “freddezza” della luce.
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Oggi inizia la pubblicazione di una rubrica fissa con la quale, sotto il nome di "GLOSSARIO FOTOGRAFICO", intendo proporre ai frequentatori del blog, soci del Centro Cultura Fotografica@Trento, la trattazione di alcuni termini del vocabolario fotografico, scelti fra i più importanti. Non ho intenzione di fare concorrenza a Wikipedia o duplicare quanto è già abbondantemente disponibile in rete bensì cogliere lo spunto offerto di volta in volta da un termine gergale per entrare, un po’ in profondità, nei meandri della fotografia, in chiave tecnica e in chiave espressiva. Nella speranza di essere utile e di stuzzicare l’appetito degli appassionati!
Adriano Frisanco
Acome
APERTURA DEL DIAFRAMMA Il diaframma è il foro, localizzato fra le lenti dell’obiettivo, attraverso cui passa la luce che andrà a colpire il supporto sensibile (sensore o pellicola). È fisicamente costituito da un numero variabile di lamelle (5, 6, 7 o anche più) a profilo arrotondato che, stringendosi o allargandosi fra loro, determinano un foro di diametro variabile (solo negli apparecchi più elementari, ad esempio le “usa e getta” a pellicola, il diaframma ha diametro fisso). Analogamente alla pupilla dell’occhio umano, svolge la funzione di regolare la quantità di luce che riesce ad attraversare l’obiettivo e a investire l’elemento sensibile.
L’apertura di diaframma è espressa, in fotografia, dalla lettera f seguita da un valore della scala numerica apparentemente criptica che segue:
1
1.4
2
2.8
4
5.6
8
11
16
22
32
45
64
128
Il rapporto fra i valori della scala è 1,4, cioè radice quadrata di 2, a parte l’arrotondamento al valore più prossimo.
Ciò che conta sapere per un fotografo è che fra un valore di apertura e quello attiguo si dimezza o si raddoppia la quantità di luce che attraversa l’obiettivo (*). Per fare un esempio: con diaframma regolato a f 8 un obiettivo lascia passare il doppio della luce che passa a f 11 o la metà di quella che passa a f 5,6.
Questo dato è molto importante per poter calcolare con esattezza la cosiddetta “coppia tempo/diaframma” dalla quale dipende la luminosità di ogni fotografia.
Si può facilmente calcolare (per pura curiosità vista la totale ininfluenza pratica) il diametro fisico del foro che si crea chiudendo il diaframma del proprio obiettivo a un dato valore, dividendo la lunghezza focale dell’obiettivo a focale fissa o impostata sullo zoom per il valore nominale dell’apertura scelta. Ad esempio: regolando lo zoom su una lunghezza focale di 100 mm e chiudendo il diaframma a f/11, si ottiene un foro di 100:11= 9,1 mm di diametro. Un 50 mm con luminosità f/1,4 ha un foro che, alla massima apertura, raggiunge il diametro di 50:1,4= 35,7 mm. A voi proseguire il divertimento.
Oltre a determinare la quantità di luce passante, la regolazione dell’apertura del diaframma produce un effetto, potremmo dire “collaterale”, sulla cosiddetta “profondità di campo”, cioè l’ampiezza della scena che apparirà nitida in una determinata fotografia (la voce sarà trattata prossimamente)
(*) oltre ai valori “pieni” distanti fra loro di 1 “stop” (dove “stop” sta ad indicare un intervallo che genera il raddoppio o il dimezzamento della luce passante) è possibile regolare l’apertura del diaframma su valori intermedi, corrispondenti a intervalli di 1/2 stop.